Moshtari Hilal, artista visiva e scrittrice che opera tra Berlino e Amburgo, nella sua ricerca riflette sulla molteplicità delle culture e dell’identità collettiva, sfidando i concetti di bellezza tradizionale e gli stereotipi mediorientali.
La sua pratica artistica è una riconciliazione con la vergogna e la bellezza negata, per comprendere e criticare il potere e le continuità coloniali nella cultura visiva.
Utilizzando soprattutto disegno analogico e collage su foto, mette in discussione pregiudizi culturali e ideali estetici, raffigurando donne con peli sul viso e uomini che indossano veli, aprendo percorsi di riflessione e dibattito.
Partendo da autoritratti e immagini dall’archivio di famiglia, che utilizza in maniera eclettica, tratta motivi ricorrenti, come il naso prominente, i capelli neri, la figura della madre e i ricordi d’infanzia.
È cofondatrice del collettivo Afghan visual arts and history e del progetto di ricerca Curating Through Conflict with Care.
Nata a Kabul nel 1993, a due anni è emigrata in Germania assieme alla sua famiglia in fuga dall’Afghanistan.
Ha studiato Scienze Islamiche ad Amburgo, Berlino e Londra specializzandosi su Studi decoloniali e di genere.
Nel 2022, ha pubblicato, insieme al geografo politico Sinthujan Varatharajah, il libro English in Berlin – Exclusions in a Cosmopolitan Society che ha ricevuto il premio di sostegno per la critica dall’Accademia Lessing Wolfenbüttel.
Nel suo saggio Bruttezza che ha vinto il prestigioso Hamburg Literature Prize 2023, avvalendosi della forma scritta, ma anche attraverso disegni, fotografie e stranianti autoritratti, indaga sugli aspetti sociali e politici delle categorie estetiche.
Sostiene che la bruttezza, così come la razza, non esista sul piano della realtà, ma sia una categoria politico-economica utile a veicolare l’odio nei confronti di corpi e identità non conformi, da cui il capitalismo non riesce a produrre immediatamente valore e di cui deve quindi giustificare l’esclusione – in ultima istanza, la disumanizzazione – per renderne possibile lo sfruttamento.
Il fondamento teorico da cui parte non è tanto la ricerca di parole e termini nuovi per definire il bello o il brutto, quanto la radicale messa in discussione delle cause della bruttezza, quindi della società che la produce come categoria, oggi come ieri.
Ispirandosi a pensatori come Frantz Fanon e attingendo al femminismo nero e ai Disability Studies, infrange ogni stereotipo e chiarisce quanto persino un senso come la vista, all’apparenza “naturale”, sia costruito ed educato da standard che rafforzano rigide gerarchie sociali.
Unendo pensiero teorico a pagine più intime, liriche e familiari, conduce in un viaggio attraverso la vergogna e le paure che non siamo consapevoli di aver introiettato.
Tornata in Afghanistan una sola volta, per trovare i familiari rimasti lì, sogna di riuscire a crearci uno spazio culturale assieme al collettivo artistico Avah di cui fa parte.
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