La donna che presento oggi è un’artista molto interessante che ho incontrato nei mille input del web e che ha molto colpito la mia curiosità.
Silvia Rosi, fotografa che esplora lo spazio della memoria e della costruzione dell’identità con l’intento di creare una nuova realtà.
Partendo dall’archivio fotografico familiare e attingendo alle origini e all’eredità culturale, ripercorre la sua storia personale rappresentata attraverso autoritratti in cui interpreta i suoi genitori raccontando la loro esperienza di migrazione dal Togo all’Italia.
Il suo lavoro è stato pubblicato, tra gli altri, da Foam e British Journal of Photography e selezionato per diverse residenze in giro per il mondo.
Premiata con il Jerwood/Photoworks Awards e inclusa nel progetto del British Journal of Photography, Portrait of Britain, ha vinto il Premio Vic Odden della Royal Photographic Society ed è stata tra le persone finaliste del MAXXI Bulgari Prize.
Ha partecipato a numerose mostre in contesti internazionali tra cui spiccano la National Portrait Gallery, il Brooklyn Museum e il LACMA di Los Angeles.
Con l’autoritratto affronta, da una prospettiva personale, ciò che diventa un racconto collettivo, carico di messaggi che sfociano in un più ampio discorso politico.
Nata a Scandiano, Reggio Emilia, nel 1992, vive e lavora tra Lomé e Londra, città in cui si è laureata in fotografia al London College of Communication della University of the Arts nel 2016.
Sin dai primi lavori è emersa la centralità della sua storia di italiana afro-discendente.
In Election Box, realizzato nei primi anni della sua formazione, l’esperienza di scrutatrice di seggio durante le elezioni è diventata uno spunto giocoso di riflessione sulla ‘sparizione’ delle persone nella cabina elettorale, ma anche sulla sua presenza in un luogo interdetto a chi non ha la cittadinanza italiana.
In Encounter è sempre il suo corpo al centro di un’indagine fotografica che attinge da motivazioni storiche e antropologiche: partendo dall’evoluzione della fotografia vittoriana, e in particolare dalla tradizione del ritratto in studio dell’Africa occidentale, ha ragionato sui processi di auto-rappresentazione che attribuiscono agli oggetti di scena un ruolo fondamentale nel costruire l’immagine e la storia della persona ritratta. Ha incluso elementi che rimandano a episodi di vita reali, come la presenza dei pomodori nel ritratto paterno che allude allo sfruttamento nei campi delle persone migranti in Italia, di cui egli stesso ha fatto esperienza.
I membri della sua famiglia, padre e madre, sono impersonati dall’artista stessa, che si cala in un ipotetico album di famiglia per raccontare il proprio vissuto attraverso quello dei suoi genitori.
La necessità di focalizzarsi sulle dinamiche della famiglia, attingendo al proprio passato ma anche attraverso altri tipi di archivi che è andata a ricercare in Togo, è inserita in una più ampia riflessione sui processi di immigrazione, sui retaggi coloniali e sulla perdita di alcune tradizioni nel passaggio tra contesti diversi.
L’esercizio della memoria è la sua pratica per riagganciare radici perdute e lavorare sulle conseguenze della diaspora africana.
In Protektorat riporta alla luce documenti del periodo coloniale tedesco in Togo, evidenziando la lotta per l’egemonia della lingua tra colonizzatori nelle colonie africane.
Per il Festival di Fotografia Europea, nel 2024, ha presentato la sua prima mostra personale italiana, dal titolo Disintegrata. Per questo lavoro ha raccolto centinaia di fotografie ordinarie, scatti di album di famiglia che raccontano la quotidianità di persone giunte dall’Africa prima del Duemila, in contesti diversi.
Per questo progetto, in una prolifica operazione di community building, Silvia Rosi ha attivato una rete italiana di persone afro-discendenti per formare un archivio familiare delle diaspore.
Le foto svolgono complesse funzioni sociali e diventano strumenti per affermare o indagare identità personale, appartenenza familiare, identificazione di genere, status di classe, affinità nazionale o appartenenza a una comunità.
La sua pratica artistica si muove nella relazione tra dimensione privata e pubblica della fotografia, tra immagine trovata e quella realizzata in studio, giocando sugli slittamenti di lettura e di significato generati dai diversi contesti di fruizione.
In un percorso che si snoda dall’album di famiglia al paesaggio abitato da corpi neri, esplora, restituisce e mette in scena, con umorismo, la nuova italianità fatta di differenze e sfumature, tutte importanti e degne di nota.
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